29 aprile 2016 – I recitativi

29 Aprile 2016->I recitativi

Dopo l’introduzione e prima di ogni gruppo musicale, gli attori Barbara e Claudio, di Vertex Teatro, hanno recitato alcuni brani significativi.

ADRIANO VISCONTI

“Mirate al petto, vigliacchi!” ho gridato poco prima di cadere sotto il piombo traditore sparatomi alla schiena da parte di qualcuno che non ha avuto nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi mentre mi uccideva. Quelle raffiche di mitra, oltre alla mia vita, si sono portate via anche quella del mio coraggioso e fedele aiutante di campo Valerio Stefanini, che ha tentato di proteggermi dall’odio partigiano.
Era il 29 aprile 1945 e la guerra, che io avevo combattuto fin dall’inizio facendo il mio dovere di italiano, era ormai finita. L’avevo vissuta nei cieli, prima come pilota d’assalto e poi come cacciatore, mettendo sempre al primo posto l’Italia e la sua gente. Sempre.
Quando l’armistizio del settembre 1943 gettò sul mio popolo l’ombra del disonore,decisi di continuare a combattere con l’Aviazione Nazionale Repubblicana. Feci questa scelta perché la consideravo l’unica possibile. L’unica che rispettava il mio ideale di assoluto e purissimo amore di Patria, cuna Patria he avevo il dovere di difendere dai continui e sempre più devastanti bombardamenti anglo-americani. Pochi giorni prima, parlando per l’ultima volta ai miei uomini, avevo detto loro:«Spero che accetterete di servire ancora la Patria quando avrà bisogno di voi. Grazie per l’opera prestata. Tutti i nostri pensieri vadano ai Caduti».
Servire il proprio Paese dunque, anche e soprattutto quando farlo costa sacrificio e pericolo. Oggi, che sono passati più di settant’anni, le mie spoglie mortali riposano, insieme a quelle di centinaia di camerato, al Campo 10 del cimitero Maggiore di Milano. Stefanini è sempre al mio fianco, poco più in là due Medaglie d’oro: Borsani, e Barracu e poi altri eroi e soldati, uomini e donne fascisti. Sulle nostre tombe vegliano ancora giovani camerati e non manca mai un fiore. A tutti quelli che, come loro, si impegnano non solo a parole ma nei fatti a difendere e tramandare il mio stesso ideale di onore e patriottismo, dai cieli limpidi ed eterni in cui sto volando dico di nuovo: «Grazie per l’opera prestata. Spero che accetterete di
servire la Patria quando avrà bisogno di voi».

CARLO BORSANI

Di lui conosciamo l’esempio di soldato, medaglia d’oro al Valor militare; la testimonianza di fede patriottica e la tragica fine.

Poco conosciamo della sua produzione letteraria che è stata notevole, almeno se pensiamo che è morto a soli 28 anni e che, nell’arco breve della sua esistenza, dal 1937 al 9 marzo 1941 ha fatto il soldato; poi, non vedente e nonostante i dolorosi postumi delle ferite, si è intensamente impegnato nella vita pubblica con articoli, discorsi e, durante il periodo della Repubblica di Salò, anche come Presidente dell’Associazione Mutilati.

Le poesie di Carlo Borsani, una quarantina, sono state pubblicate in tre volumetti: Gli occhi di prima (1942), La mano di Antigone (1944) e Liriche (1948). Qui ne proponiamo due: la prima dedicata “al mio secolo” e l’altra, che è anche l’ultima da lui scritta, dedicata alla moglie, e datata 21 aprile 1945, otto giorni prima di venire ucciso.

AL MIO SECOLO

Il mio secolo dorme il volto oppresso

da una maschera vile; dei pagliacci

son rimaste le giubbe senza il cuore;

e la gente non ride. Eppure il cielo,

è sempre azzurro come il vostro cielo,

o poeti maestri del Trecento;

e la Patria ha le stesse primavere

e le Madonne e gli Angeli e il sorriso

del vostro sogno o altissimi pittori

d’Umbria e Toscana. Abbiamo dunque errato

lontano errato dalle fonti vere

dello spirito. È tempo di tornare

con la fiaccola buona nella mano

che ha sanguinato nella lunga aurora.

È tempo di tornare; io ve lo chiedo,

o fratelli del secolo più ingrato:

io che ho sofferto per creare e sono

tanto fanciullo ancora e ancora credo

nella bellezza della vita e canto.

 

FRANCA

La bella fronte, di copiosi sparsa

riccioli neri, mentre nei tranquilli

ozî del sonno immobile riposa,

io t’accarezzo Franca, e sulle chiuse,

innocenti pupille silenziosi

depongono i baci della mia notturna

felicità. Non è la vita e il mondo

soltanto questa effimera e mortale

luce che gli occhi inonda fuggitiva.

Anche la notte ai taciti rivela

sensi il mistero della sua bellezza,

e le immagini chiare e le visioni

versa amorose dal suo grembo il sogno.

Prega, mia Musa, che mi sia concessa

questa, d’amare e di soffrir, sublime

forza che sola può salvarmi…

Milano – 21 aprile 1945

ENRICO PEDENOVI

Dall’omicidio di Enrico Pedenovi alla prima edizione del libro che oggi vi presentiamo erano trascorsi venticinque anni. Ora ne sono trascorsi quaranta, nel corso dei quali coloro che lo hanno conosciuto, lo ricordano protagonista intelligente e insostituibile delle battaglie del MSI a Milano. Enrico – e i suoi amici con lui – hanno condiviso il ricordo e l’orgoglio di una pericolosa ma consapevole scelta fatta quando non erano ancora ventenni, con il proposito di essere attori della storia di un periodo difficile ma esaltante, non essendo disposti a subire e ad accettare passivamente gli avvenimenti imposti da altri o a rifugiarsi nel conformismo degli inetti e dei prudenti rimasti alle finestre.

Tu, Enrico, sei sempre stato vicino a me e a Lorenzo Ribotta, difensori di parte civile della tua famiglia contro coloro che ti avevano ucciso in una mattina di sole che annunciava una splendida giornata di primavera mentre, seduto nella tua automobile, scorrevi i giornali prima di recarti al lavoro nel tuo studio legale. Tu ci hai suggerito i pensieri e le parole per ricordare, nell’aula della Corte d’Assise, il senso del dovere che ti apparteneva e l’enorme ingiustizia perpetrata da coloro che l’avevano concepita e attuata. Ci sei stato vicino anche nel corso di questi lunghi quarant’anni che ci separano da quel 29 aprile che si è trasformato improvvisamente nel dolore di averti perduto, “giustiziato” per un delitto di opinione.Ma tu, Enrico, hai vinto la tua battaglia perché hai lasciato ai giovani il migliore esempio che può dare un uomo: il rispetto della propria memoria individuale e di quella storica del suo Paese.

L’Uomo si salva solo se non avrà mai avuto l’occasione di vergognarsi di se stesso, né per quello che era né per quello che è.

Perché il passato e il presente sono inscindibili nell’individuo e, insieme, formano la sua storia, quella che uno non può perdere per la strada e, tanto meno, rinnegare.

Senza la propria memoria storica nessuno può vivere da uomo.

Tu, Enrico, hai vissuto.

Poesia

Il mio paese mi fa male per le sue vie affollate,

per i suoi ragazzi gettati sotto gli artigli delle aquile insanguinate,

per i suoi soldati combattenti in vane sconfitte

e per il cielo di giugno sotto il sole bruciante.

 

Il mio paese mi fa male in questi empi anni,

per i giuramenti non mantenuti,

per il suo abbandono e per il destino,

e per il grave fardello che grava i suoi passi.

 

Il mio paese mi fa male per i suoi doppi giochi,

per l’oceano aperto ai neri vascelli carichi,

per i suoi marinai morti per placare gli dei,

per i suoi legnami troncati da una forbice troppo lieve.

 

Il mio paese mi fa male per tutti i suoi esilii,

per le sue prigioni troppo piene, per i suoi giovani morti,

per i suoi prigionieri ammassati dietro il filo spinato,

e tutti quelli che sono lontani e dispersi.

 

Il mio paese mi fa male con le sue città in fiamme,

male contro i nemici e male con gli alleati,

il mio paese mi fa male con tutta la sua giovinezza

sotto bandiere straniere, gettata ai quattro venti,

perdendo il suo giovane sangue in rispetto al giuramento

tradito di coloro che lo avevano fatto.

 

Il mio paese mi fa male con le sue fosse scavate,

con i suoi fucili puntati alle reni dei fratelli,

e per coloro che contano fra le dita spregevoli,

il prezzo dei rinnegati piuttosto che una più equa ricompensa.

 

Il mio paese mi fa male per la sua falsità da schiavi,

con i suoi carnefici di ieri e con quelli di oggi

mi fa male col sangue che scorre,

il mio paese mi fa male. Quando riuscirà a guarire?

Robert Brasillach

SERGIO RAMELLI

I VOCE

A Milano fu scavata una fossa
ci si buttò dentro la ragione,

ci si buttò dentro la pietà.
A Milano fu scavata una fossa
nei cuori e nelle coscienze,
era scritto dappertutto che era il male e tutti fecero come se lo fosse.
A Milano fu scavata una fossa
e fu messa sotto gli occhi di tutti affinché tutti avessero chiaro
quel che poteva succedere a chi
si ostinava ad usare il cervello.

 II VOCE

“Colpirne uno per educarne cento”.

 

I VOCE

A Milano fu scavata una fossa
per mostrare che pietà l’era morta,
che chi voleva pensare a proprio modo

lo faceva a suo rischio e pericolo.

 

II VOCE

 “Uno, dieci, cento Ramelli, con una striscia rossa tra i capelli”.

 

I VOCE

A Milano fu scavata una fossa
per raggelare i cuori delle madri,
per far tremare le ginocchia ai padri,

per fare impazzire i fratelli
e fare abbassar gli occhi ai conoscenti.
Chi non ebbe paura in quei giorni?
II VOCE

Fu scavata una fossa a Milano,
un pozzo nero dentro il nostro cuore
una crepa senza fondo nella nostra memoria.

Perché chi non ha memoria
non è capace di avere coraggio
ed obbedisce meglio chi non ha coraggio.

 

CORO

Forse è il destino che gli uomini di coraggio muoiano uccisi dai vili;
e gli uomini di coraggio non colpiscono i vili

e sono i vili che colpiscono gli uomini di fede.
Ma voi… Voi…  ricordate i vili
e ricordate i coraggiosi,
e non stringete la mano dei vili,
e non date loro il vostro amore.
E quando siete felici e godete della libertà

che i coraggiosi vi hanno regalato
abbiate un pensiero per loro
che sono passati
come passa…

una carezza del vento.

Da “Chi ha paura dell’uomo nero”