Che sarebbe stato di noi, della gioventù di destra degli anni ’70 e degli anni successivi, senza il sacrificio di Sergio Ramelli?

Ce l’avremmo fatta a superare i terribili anni dell’antifascismo militante e sarebbero poi riusciti i ragazzi che raccolsero il nostro testimone a non farsi omologare ai tanti che hanno barattato i valori in cui credeva Sergio con la ricerca edonistica del successo e del danaro ad ogni costo?

Me lo sono chiesto più volte. E mi sono sempre risposto che avrei voluto che Sergio vivesse anche se per noi sarebbe stata ancora più dura. Il futuro avremmo preferito costruirlo, anche con lui, attingendo agli esempi che la storia dei giovani italiani ci ha regalato. A partire da Goffredo Mameli che a 21 anni diede la vita alla Patria dopo aver scritto il cantico che è ancora oggi l’inno d’Italia. O, uscendo dai nostri confini, onorando Jan Palach, Alain Escoffier e i tanti giovani eroi non solo italiani immolatisi contro il comunismo.

Ma Sergio è stato ucciso, non ha potuto vivere con noi gli anni della lotta e della sconfitta del comunismo. Non ha potuto vedere la caduta del muro di Berlino né le rosse bandiere con falce e martello precipitare nella polvere dai più alti pennoni del Cremlino.

Eppure nei nostri cuori, sappiamo che Sergio non solo ha vissuto e visto coi nostri occhi questi eventi, ma col suo sacrificio è entrato nell’olimpo degli eroi che hanno contribuito a determinarli. Senza di lui e degli altri giovani, ai quali è stata tolta tragicamente la vita, la memoria storica sarebbe stata diversa. Di sicuro, noi giovani militanti di allora e degli anni successivi, abbiamo visto in lui la stella polare che ci ha guidato, pur tra errori, traversie, deviazioni, nel cammino tracciato dai nostri padri.

Il libro di Guido Giraudo e dei giovani del FdG monzese, 45 anni dopo la morte di Sergio, è ancora vivo così come è vivo Ramelli. Oggi il libro fa forse più stupore che paura perché è difficile credere che a Milano negli anni ’70, vivessimo in una vera guerra civile e senza che la stragrande maggioranza dei milanesi ne fosse pienamente cosciente (o forse facendo finta di non accorgersene).Non esagero nel ricordare che qualche centinaio di ragazzi si contrapponeva alla violenza egemonica di almeno ventimila “compagni”, forti della complicità di molti giornali, apparati dello stato, professori e forze politiche del cosiddetto “arco costituzionale”. A cui si aggiungeva l’ignavia di molti sedicenti “benpensanti”.

Quella violenza sfociò nel terrorismo, non più solo contro di noi, e purtroppo, emulata per riflesso anche da minoritarie sanguinose azioni di segno opposto. La forza di rifuggire da ogni tentazione di questo genere e di continuare la strada della militanza alla luce del sole ci è venuta proprio dall’ esempio di Sergio, a cui le carte processuali hanno dovuto riconoscere la certezza di un animo trasparente e cristallino mai offuscato da ogni e qualsiasi gesto di odio o di violenza.

Ed è per questo che Sergio Ramelli già nelle parole di Indro Montanelli diventa patrimonio non solo nostro ma di tutti coloro che non si sono riconosciuti nella cultura dell'”antifascismo militante” della perpetuazione dell’odio tra italiani e non si riconoscono ora nello stucchevole “politically correct” e nelle degenerazioni culturali che ne sono figlie.

In me che ho conosciuto Sergio, che ho rappresentato in tribunale la madre Anita e la sua sete di giustizia e con essa, l’onore di una intera generazione, resta vivo il desiderio che è anche quello del libro di Giraudo, di offrire la sua memoria a tutti coloro che credono nella libertà, nella coerenza, nella volontà di difendere le proprie idee senza deflettere.

La figura di Anita, madre di Sergio, che ci ha offerto, la dignità del suo dolore e la sua affettuosa vicinanza mai venuta meno fino alla sua morte, insegna a tutti quanto l’amore possa sublimarsi in un insegnamento che il tempo non cancella e che ci è stato donato da Sergio con il lascito del suo sacrificio e della sua eterna giovinezza.

Ignazio La Russa


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