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“A cosa può servire un libro su Sergio? Se scritto bene può servire ad insegnare qualcosa. Anzi lo insegnerà di sicuro… A non usare mai più la violenza”.
Dopo aver pronunciato queste parole, gli occhi della mamma di Sergio Ramelli fanno il giro dei nostri volti, nel silenzio che chiude la lunga intervista che ci ha rilasciato. Di fronte a lei, nel salottino della casa di via Amadeo, dove Sergio è nato e cresciuto, c’è un uomo ormai grigio di capelli che ha poco più degli anni che avrebbe oggi suo figlio e dei ragazzi che, invece, hanno giusto l’età di Sergio quando fu sprangato…
Chissà quanti pensieri saranno passati in quell’attimo nella mente di questa donna, la cui vita è stata segnata per sempre dagli atroci fatti di quella primavera del 1975, anno in cui quei ragazzi, che ora le sono di fronte e che l’hanno ascoltata in un silenzio carico di rispetto, timore e curiosità, non erano neppure nati; mentre chi scrive, era uno dei quattro giovani del Fuan, che portarono in chiesa la bara di Sergio…
Ecco: due generazioni sono qui, di fronte a una madre, per ricordare e per capire…Un anno prima, quando quegli stessi ragazzi, tutti militanti del Fronte della gioventù di Monza, mi avevano esposto il loro proposito di scrivere qualche cosa su Ramelli, anch’io mi ero chiesto “a cosa può servire un libro su Sergio?” e l’unica risposta l’avevo trovata nel bisogno di testimonianza, avendo raggiunto ormai l’età in cui si sente la necessità di “lasciare” qualche cosa, di tramandare un ricordo o un’esperienza. Al tempo stesso, però, sentivo vivo il timore di non essere ancora sufficientemente “saggio”, obiettivo e distaccato per poter raccontare quei fatti.
Questo timore in me era – ed è tuttora – grande, perché la memoria di quegli anni è ancora, per tutti i militanti di destra della mia generazione, una ferita aperta e sanguinante. Non mi sento di dire che tutto è passato, che tutto è dimenticato, che tutto è perdonato. Troppi morti, troppa sofferenza, troppa paura e rabbia abbiamo dovuto subire e troppa violenza, troppa protervia, troppa falsità e vigliaccheria abbiamo dovuto affrontare.
Come fare allora a scrivere un libro su Sergio, leggibile dai ragazzi del 2000, così lontani da quel clima, quando ogni ricordo di quei giorni stringe ancora il cuore e, ancora, fa serrare i pugni? La risposta è che il libro doveva partire da loro, dai ragazzi. Doveva nascere dalla “loro” ricerca di verità e di giustizia. Non sarebbe stato un libro di “memorie”, uno dei tanti “diari di guerra” o un’esaltazione nostalgica di anni “formidabili”… come solo Mario Capanna poteva definirli. Saremmo andati a cercarci la storia attraverso la cronaca, scartabellando negli archivi alla ricerca dei giornali del tempo, degli atti processuali, delle testimonianze dirette.
Così, giorno per giorno, è nato questo libro nel quale abbiamo deciso di ridurre al minimo i commenti o i ricordi lasciando parlare gli atti (l’ordinanza di rinvio a giudizio, gli articoli della stampa, le requisitorie di parte civile e del PM, i motivi di appello, le sentenze)… e soprattutto lei: Anita Ramelli, che con le sue parole fa da filo conduttore a tutto il racconto.
Grazie a questi documenti originali e inconfutabili abbiamo voluto ricostruire non tanto la vita di Sergio – così breve – né solo la sua tragica agonia e morte, ma abbiamo tentato di ricostruire il clima di quegli anni (per mezzo degli atti istruttori) e la psicologia dei protagonisti (attraverso le loro stesse testimonianze), per capire dietro a quali paraventi ideologici sia nata e cresciuta una tale cieca violenza, affinché mai più nessun ragazzo si lasci trascinare da dottrine che dell’odio e dell’eliminazione fisica dell’avversario hanno fatto il loro pane quotidiano.
E’ stato allora che ci siamo accorti che “il caso Ramelli” è davvero “una storia che fa ancora paura”, perché ricostruisce l’abisso di barbarie a cui si era giunti in Italia negli anni Settanta, in ufficiale clima di “democrazia” e di “civile convivenza”.
Fa paura, ancora oggi, pensare a giovani studenti di Medicina che spappolano il cranio di un ragazzo di 18 anni a colpi di chiave inglese. Ma fa ancora più paura scoprire che lo fecero, non in preda all’ira, al rancore o alla paura, ma lucidamente e freddamente solo per obbedire ad una logica “politica”, seguendo precise direttive teorizzate da “istanze superiori”. Gli aggressori neppure conoscevano l’aggredito, eseguivano ordini di “annientamento” ideologico del nemico. E c’è solo un’ideologia, nella storia dell’umanità, che è stata capace di obnubilare le menti dei singoli e dei popoli attraverso la predicazione costante dell’odio, della lotta di classe e dell’annientamento fisico del nemico: il comunismo.
Scriverlo oggi, mentre gli ultimi epigoni di quell’ideologia (che nulla hanno rinnegato, ma al contrario ancora ospitano tra le loro fila molti dei protagonisti di quelle violenze) sono parte integrante e determinate della compagine che governa l’Italia … beh, sinceramente, anche questo “fa paura”.
Gli assassini di Sergio, che dodici anni dopo i fatti sfilano davanti ai giudici della Corte d’Assise di Milano, potrebbero persino apparire, attraverso gli edulcorati resoconti della cronaca, delle “vittime” di fatti più grandi di loro. Sicuramente, con quelle teste chine e quel lacrimoso cercare giustificazioni nel “contesto storico”, ci appaiono come degli sconfitti e non solo perché su di loro in quel momento pendeva, seppur tardivamente, la spada della Giustizia, ma perché sulle loro “certezze” ideologiche si era già abbattuta la mannaia della storia.
Quando la vicenda giudiziaria si conclude, con la sentenza di Cassazione del 22 gennaio 1990, ormai anche il muro di Berlino è crollato, seppellendo con le sue macerie settanta anni di quel comunismo, responsabile di oltre cento milioni di morti in tutto il mondo.
Sergio Ramelli è uno di quei milioni… così palesemente diverso, nella sua solare giovinezza, dai suoi carnefici: generazione di sconfitti, che al momento del processo aveva comunque già fatto i conti con il fallimento della propria gioventù e degli ideali dell’”antifascismo militante”. Una generazione di pseudo rivoluzionari annegata in mari di droga o di tangenti; in parte falcidiata dai suicidi, in parte riciclatasi al servizio dei partiti e del capitalismo che avevano combattuto e, in parte, abbruttita nella più squallida e tanto deprecata mediocrità borghese.
Eppure quella generazione di sconfitti dalla vita e dalla storia aveva – e ha tuttora – grandi protettori e complici potenti. La mobilitazione “perdonista”, garantista e becero-rivoluzionaria, cui abbiamo assistito in questo inizio di 1997, in occasione della condanna definitiva di Adriano Sofri e degli altri militanti di Lotta Continua responsabili dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, non è infatti diversa da quella che accompagnò, nel settembre del 1985, l’arresto degli assassini di Ramelli.
Allora come oggi (e lo vedremo attraverso le cronache dei giornali) la potente armata della sinistra è scesa in campo per difendere i suoi rampolli con la violenza e la protervia di sempre. Imparino dunque i giovani non solo a rifiutare l’uso della violenza in sé, ma soprattutto a diffidare dei “cattivi maestri”: di quegli intellettuali, di quei giornalisti, di quei politici che sono sempre pronti a usare due pesi e due misure. Leggendo attentamente quanto scrivono i giudici istruttori del processo Ramelli (persone non certo di destra…) scopriamo che proprio la potente opera di “copertura” offerta da stampa, televisione, uomini di “cultura”, partiti politici di centro e di sinistra, permise alla violenza di crescere con la “netta sensazione dell’impunità” (sono parole loro) fino a diventare guerra civile e terrorismo, con l’allucinante bilancio di vittime che è oggetto di un capitolo di questo libro. Ci auguriamo, quindi, che queste pagine possano davvero servire a ricomporre un po’ di quella “verità negata” e a far riflettere sulle menzogne di quanti, ancora oggi, vivono dell’eredità politica dell’”antifascismo militante”. Ma se saranno servite anche “a non usare più la violenza”, rifiutando e combattendo quell’ideologia che l’ha predicata e utilizzata per settant’anni… bene! Almeno “questo” sogno di mamma Ramelli si sarà realizzato.

Monza: 1 marzo 1997

Guido Giraudo


¹ Nel marzo 1997 era presidente del Consiglio Romano Prodi, alla guida di una coalizione di centrosinistra che aveva sconfitto, l’anno prima, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi anche grazie alla “desistenza” di Rifondazione Comunista. Nel governo Prodi il peso della sinistra, dagli ex-PCI guidati da Massimo D’Alema ai Verdi e alla stessa Rifondazione Comunista, era determinante e persino alcuni ministri (il caso di Edo Ronchi è citato nel Capitolo III) provenivano dalla violenta militanza extraparlamentare.